L’intelligenza artificiale è considerata il miglior “job engine” in assoluto, ma resta da vedere quanto ci vorrà perché l’AI generi nuovi lavori e professioni tali da coinvolgere un’ampia platea di lavoratori.
C’era una volta…già, c’era una volta in cui il furore luddista si scatenava sui robot, dimenticando il vero pericolo, l’intelligenza artificiale (AI). Circa due anni fa era apparso sulla nostra rivista un editoriale che anticipava i problemi in divenire con questo titolo “AI fa perdere posti di lavoro? No, cambia il lavoro”. Che l’AI cambi il lavoro è indubbio, e l’impatto modificante è solo all’inizio. Che l’AI non faccia perdere posti di lavoro, su questo non c’è più da essere tanto sicuri, proprio perché i cambiamenti che introduce non sono solo riferibili a nuove competenze richieste agli addetti dell’industria, del commercio o dei servizi, ma ben più drastiche. Ma partiamo dall’inizio. Nel 2017 si era sottolineato come finalmente ci si era accorti, ai massimi livelli degli opinionisti e dei guru dell’innovazione tecnologica, che non saranno i robot a togliere posti di lavoro, ma sarà proprio l’inevitabile e pervasiva presenza dell’intelligenza artificiale a creare problemi occupazionali in un contesto in cui le macchine faranno non certo tutto ma comunque molto, e numerosi processi decisionali non necessiteranno più dell’apporto cognitivo dell’uomo. E qui potrebbe cadere il principio in base al quale le nuove tecnologie creano, quasi per definizione, più lavoro di quanto non ne tolgono, e con particolare riferimento all’AI si diceva che la sua diffusa adozione potreva essere un’opportunità, non una minaccia agli attuali posti di lavoro. Difendere i robot era stato facile, ma difendere l’intelligenza artificiale, relegandola semplicemente allo stato di strumento tecnologico, è più difficile: l’intelligenza artificiale non ha ancora sviluppato tutto il suo potenziale, si è solo agli inizi, e probabilmente le vecchie regole del gioco non saranno più valide, se non come principi generali di riferimento. Quello che si può dire è che per ora la diffusa adozione dell’AI potrebbe essere un’opportunità, non una minaccia agli attuali posti di lavoro. Sul futuro difficile esprimersi, e in questo si è in buona compagnia, ricordando che il famoso fisico Stephen Hawking ebbe a dire: la crescita di una potente AI potrebbe essere la cosa migliore mai capitata al genere umano, o la peggiore, non sappiamo quale delle due.
Le motivazioni all’AI
Per quanto di intelligenza artificiale si sia sempre parlato a livello scientifico, il successo della moderna AI si può affermare che non sia dovuto tanto all’arrivo di nuove tecnologie di rottura con il passato, quanto alla vastità dei dati generati dalle applicazioni sia industriali che commerciali e alla crescita della potenza elaborativa disponibile, con cui analizzarli. Prudentemente si afferma che anche se fosse disponibile una massa pressochè infinita di dati, mai un’entità artificiale potrebbe raggiungere un livello di intelligenza paragonabile a quello umana, almeno stando allo stato attuale della tecnologia: un passaggio fondamentale sarebbe rappresentato da un perfetto modello a computer del cervello dell’uomo, ma questo obiettivo è ancora molto lontano. Tornando all’intelligenza artificiale per applicazioni industriali e commerciali, da ricordare che l’obiettivo è ottimizzare e velocizzare i processi estraendo informazioni e correlazioni non immediatamente visibili, a partire dai cosiddetti “Big Data”, operazione che non sembrerebbe avere un qualche impatto immediato sui posti di lavoro. In realtà le cose sono ben più complesse, e allo stato attuale non sappiamo come l’intelligenza artificiale si evolverà in futuro. Potrebbe allora essere utile rifarsi a esperienze pregresse.